Le donne sono circa la metà dei migranti internazionali, molte di loro sono impiegate in lavori di servizio o cura, spesso lontane dalla propria famiglia, oppure si occupano dei propri familiari e della casa, senza poter ambire a un impiego fuori.
Riportiamo un interessante articolo di Laura Zanfrini apparso sabato 9 gennaio 2021 su Avvenire
In Italia la transizione migratoria fu annunciata, negli anni 70, dall’ arrivo di donne straniere che trovavano lavoro (e alloggio) presso le case borghesi delle grandi città: le cosiddette colf, una riedizione della figura della cameriera ma che, per molti versi, ne riproduce la natura “familiare” – con tutta la sua ambivalenza – e i caratteri di un mestiere servile ma soprattutto femminilizzato, ovvero costruito socialmente come particolarmente adatto alle donne.
Significativamente, molte datrici di lavoro (magari impegnate in iniziative per le pari opportunità e l’empowerment femminile) utilizzano disinvoltamente l’espressione “la mia donna” quando parlano della propria collaboratrice domestica, o ancora “la mia filippina”, a evocare l’etnicizzazione che ha investito il lavoro per le famiglie (di cui è emblema un termine come “badante”) e che richiama alla mente un ordine castale, dov’è l’appartenenza etnica a decretare il posto di ciascuno nella società.
A decenni dall’ avvio della vicenda migratoria italiana, le famiglie sono ancora il principale datore di lavoro delle immigrate: il comparto assorbe oltre 4 straniere su 10 e si caratterizza per tutte le criticità di un lavoro che continua a non essere considerato esattamente come tale, a partire dal l’impressionante diffusione dell’occupazione irregolare (stimata pari al 60% degli addetti).
Tuttavia, la migrazione femminile ha anche altri volti, che rispecchiano la tradizionale configurazione del ciclo migratorio, in cui i primi a migrare sono gli uomini.
Parliamo del volto delle donne arrivate attraverso il ricongiungimento familiare, che da anni rappresenta la principale ragione d’ingresso in Italia. E di quello delle loro figlie, talvolta al centro di episodi drammatici, sebbene si tratti di episodi isolati rispetto a una realtà fatta in prevalenza di (buona) integrazione. Molte sono infatti le giovani immigrate e figlie di immigrati che incarnano i sogni di riscatto delle loro famiglie, si impegnano a scuola, ottengono un lavoro qualificato e fanno sentire la propria voce nello spazio pubblico. E tuttavia, gli episodi che ci parlano di regimi patriarcali sollecitano a interrogarsi su una realtà composita e ancora in parte poco conosciuta.
La realtà, ad esempio, delle migliaia di donne originarie da paesi come Egitto, India, Pakistan, Bangladesh che si ritrovano (per scelta o per forza?), a volte giovanissime (in base ai “nostri” standard), a svolgere il ruolo di moglie e casalinga: il tasso di inattività femminile, in questi gruppi, supera l’80 o addirittura il 90%.
Si tratta di situazioni che percepiamo distanti dal principio dell’equità di genere, se non addirittura come una minaccia alla parità faticosamente affermata.
Ma che, da un’altra prospettiva, potrebbero essere la spia di quanto tale obiettivo sia ben lontano dall’ essere concretamente raggiunto, e non certo a causa della presenza di comunità immigrate custodi di culture arretrate.
Nel deprimente scenario demografico italiano, sono spesso queste donne a fare (un po’) più figli e in alcune comunità immigrate sono elevatissime le percentuali delle 18-64enni che dichiarano di doversi occupare della cura dei figli o di altri familiari: 95,2% delle egiziane, 75,2% delle tunisine, 72,2% delle bangladesi, 70% delle pakistane.
Occorrerebbe allora chiedersi se il trade-off (scambio) tra impegno professionale e ruolo familiare sia per loro, ancor più che per le donne italiane, il principale fattore che ne scoraggia la partecipazione al mercato del lavoro.
I molteplici fattori che spiegano il tasso di inattività femminile sono tutti pertinenti con la situazione di molte donne straniere: il livello di istruzione (tanto più basso, quanto più probabile l’uscita dal mercato alla nascita del primo figlio, se non il mancato ingresso), le basse retribuzioni (che pesano sulle scelte di allocazione tra lavoro familiare e lavoro retribuito), le capacità di negoziazione col partner (che possiamo ipotizzare meno presenti nelle donne arrivate per ricongiungimento familiare).
Ma verosimilmente incide anche l’atavica debolezza del sistema italiano di conciliazione, accentuata dall’ assenza dei nonni (che in genere non vivono in Italia): tra le donne con figli minori di 5 anni, dichiara di rinunciare al nido o ad altri servizi perché troppo costosi l’8,9% delle italiane, il 31,2% delle straniere comunitarie e il 37,2% delle straniere extra comunitarie.
Ne deriva che mentre il 57,2% delle donne italiane con carichi di cura è occupata, questo valore scende al 48,1% per le straniere comunitarie e al 35,5% per le extra-comunitarie.
E se concentriamo l’attenzione sulle giovani Neet (giovani che non studiano, non lavorano), non solo la loro incidenza raggiunge livelli straordinariamente elevati tra le immigrate extra-Ue (addirittura il 46%, rispetto al 23% delle italiane), ma tra di esse ben il 32,9% dichiara di dover far fronte a esigenze familiari non retribuite (rispetto all’8,3% delle italiane) e oltre la metà si dichiara indisponibile al lavoro.
Com’è noto, l’esclusione protratta dal mercato del lavoro rende probabile restarne per sempre ai margini, per tutti ma in particolar modo per le immigrate, non per caso individuate come target prioritario delle politiche europee di promozione dell’ occupabilità.
Occorre dunque far presto per impedire che molte giovani che vivono in Italia e che qui fanno crescere i loro figli (e le loro figlie) siano perennemente escluse da questo fondamentale veicolo di emancipazione economica e partecipazione sociale, ovvero dalle opportunità che caratterizzano la condizione femminile in una democrazia europea.