Un filo in più, a irrobustire la trama. Poi uno in meno, a indebolirla. La trattativa in materia di immigrazione gestita su più piani, quello interno all’Unione Europea e quello verso i Paesi africani di partenza, ricorda sempre di più la proverbiale tela di Penelope di omerica memoria, con un copione amaro e surreale che si ripete nel tempo.
Sul versante interno, da anni alcuni Stati volenterosi fra i Ventisette, coi Paesi della frontiera Sud in testa e in sinergia con la Commissione in carica, imbastiscono un canovaccio più o meno efficace per rendere più efficiente e governabile la gestione dei flussi migratori in arrivo nell’Unione; tuttavia in sede di Consiglio europeo altri Stati, animati da quelli del cosiddetto blocco sovranista di Visegrad, manifestano dissenso e opposizione e, forti del paletto dell’unanimità previsto dai Trattati, alzano veti e sbarramenti.
Anche sul versante esterno, le trattative coi Paesi di partenza e di transito dei flussi di migranti vivono di alti e bassi, perché complicate dalle turbolenze politiche locali, nel caso della Libia, dalla spregiudicatezza di interlocutori levantini o dallo scarso appeal della proposta di cooperazione europea, costruita al ribasso. E finora incapace di mettere sul piatto aiuti in grado di favorire crescita e sviluppo e offrire così ai giovani d’Africa alternative credibili all’emigrazione. Si potrebbe definirla, parafrasando il titolo di un celebre romanzo, l’insostenibile leggerezza del tessere. Insostenibile perché, mentre i Ventisette fanno e disfano le intese (Ricollocamenti, sì o no? Modificare le regole di Dublino sull’asilo, sì o no? E così via…), gli scafi carichi di uomini, donne e bambini con la bella stagione hanno ricominciato a partire. E, purtroppo, ad affondare. Ma il Patto per l’immigrazione e l’asilo proposto da Ursula von der Leyen all’avvio della sua Commissione, risulta appunto impantanato come le riforme vagheggiate dai suoi predecessori. Così, con l’estate in arrivo e l’aumento degli scafi messi in mare dai trafficanti, tocca ancora una volta all’Italia, col premier Mario Draghi e il ministro dell’Interno Luciana Lamorgese in prima fila, intonare gli appelli alla solidarietà comune già pronunciati dai governi Letta, Renzi e Conte.
Va detto: l’attivismo operativo, politico e diplomatico degli ultimi esecutivi italiani, da Mare Nostrum fino al tentativo del Patto di Malta tra i volenterosi e alle missioni di questi giorni in Libia e Tunisia, ci fa onore. Ma non basta. Occorrono, da parte di tutti i Ventisette o perlomeno dai partner di maggior peso politico, quel «cambio di passo» appena invocato dal premier Draghi e quella condivisione auspicata più volte dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella.
Servono un meccanismo efficiente di burden sharing (condivisione degli oneri) e una strategia di salvataggio in mare pragmatica e non ideologica, che includa i Paesi di partenza e non avversi più le organizzazioni umanitarie. Nel 2015, il mondo s’indignò davanti al corpo esanime del piccolo Alan su una spiaggia turca. Nelle scorse ore, si è invece commosso per il salvataggio di un neonato dalle fredde acque di Ceuta, enclave spagnola in Marocco. Mentre avveniva il Parlamento Ue ha continuato a dare segnali costruttivi, sollecitando anche un incremento dei flussi di immigrazione regolari.
Ora il Consiglio europeo straordinario di lunedì a Lisbona è alle porte. E l’Europa, per l’ennesima volta, ha solo due scelte: strepitare e costernarsi invano di giorno, disfacendo la tela degli accordi di notte e lasciando imperdonabilmente chi annega al suo destino. Oppure usare le proprie energie politiche ed economiche, forti come le braccia del poliziotto spagnolo che ha soccorso il piccino di Ceuta, per salvare chi fugge da guerre, persecuzioni, povertà e ospitarlo civilmente, vagliare rapidamente la sua richiesta d’asilo e poi stabilire se meriti di essere accolto come profugo nel nostro Continente oppure rimpatriato e aiutato con fondi e progetti a crescere a casa sua.