Sono la maggioranza di chi si mette in cammino, ma se ne parla ancora troppo poco. Il libro Le dannate del mare contribuisce a raccontare la storia delle donne africane che arrivano in Europa.
Il volume Le dannate del mare. Donne e frontiere nel Mediterraneo è stato presentato durante il Festival dell’Accoglienza a Torino al Polo del Novecento, il 3 ottobre, in occasione della Giornata della Memoria e dell’Accoglienza, anniversario della strage del 2013 quando persero la vita al largo di Lampedusa 368 persone, donne, uomini e bambini.
Le dannate del mare è il titolo che l’antropologa e geografa Camille Schmoll ha scelto per il suo testo dedicato al lavoro sul campo da lei svolto per diversi anni in alcuni centri di “accoglienza” a Malta e nel Sud Italia. Il titolo rimanda volutamente al libro I dannati della terra in cui Frantz Fanon, all’inizio degli anni ’60 del Novecento, denunciava i guasti provocati dal colonialismo. Per Schmoll c’è un parallelismo tra ciò che era il colonialismo allora e il modo in cui oggi il mondo occidentale affronta il tema delle migrazioni e le persone migranti, innanzitutto, rendendo sempre più impervio e difficile il viaggio.
Dall’inizio dell’anno alla fine di settembre, cercando di arrivare in Sicilia, sono morte 1.088 persone. La traversata, con i suoi rischi, è solo l’ultima tappa di un percorso lungo e complicato, ancor più se chi migra è donna. Per chi arriva dall’Africa subsahariana, attraversare il deserto è una prova dura. Anche qui si muore, ma non ci sono dati precisi sulle vittime. Resta il fatto che nei racconti di chi ce l’ha fatta, c’è sempre un accenno a chi invece il deserto non è riuscito ad attraversarlo. Per di più la inevitabile tappa in Libia è un buco nero di violenze e soprusi di cui a fare le spese maggiori sono le donne. La durata della permanenza in Libia oltretutto è imprevedibile.
Il Memorandum tra Italia e Libia firmato nel 2017, che affida alla guardia costiera libica il controllo e il salvataggio in mare, ha reso la situazione ancora peggiore. Dover restare o tornare in Libia è un incubo da cui ognuno vuole sfuggire.
Lo sbarco a Malta o a Lampedusa però non è affatto la fine del viaggio e l’inizio di una nuova vita che chi parte si augura. Si resta in una condizione di simildetenzione, in un limbo in attesa che la procedura della richiesta di asilo si avvii e arrivino i documenti. Procedura che può richiedere mesi se non anni, bloccando le persone sul posto, spesso in ambienti che sono non luoghi, lontani dai centri abitati, separati dalla vita normale.
Il concetto di frontiera è cambiato
Il concetto di frontiera è cambiato: non è più una linea di confine che si passa, diventa una condizione di vita. Per i e le migranti la frontiera è fare esperienza di uno spazio che si restringe e di un tempo che si allunga, un tempo vuoto. E questo è ancora più vero per le donne africane, che arrivano da tragitti segnati da una violenza continua che le accompagna dal momento della partenza fino all’arrivo. Qui spesso sono considerate con paternalismo o con maternalismo, come “soggetti umanitari”, potenziali vittime di tratta, oppure come elementi la cui sessualità è disturbante e va in qualche modo controllata.
Le traiettorie che portano le donne a migrare sono diverse. C’è chi fugge dalla guerra, ma anche chi scappa da un matrimonio combinato o da una famiglia violenta; c’è anche chi parte in accordo con la famiglia per creare un avamposto in un paese sicuro. È il caso di molte ragazze somale primogenite che la famiglia allontana per evitare loro di essere rapite e violentate dalle bande degli shebab. Ci sono donne che partono con i figli, altre che si ritrovano incinte dopo uno stupro.
Ogni donna, racconta Shmoll, ha una storia e una motivazione profonda che l’ha spinta a intraprendere il viaggio, difficile da incasellare nell’arbitraria suddivisione tra rifugiati e migranti economici. Tutte hanno subito traumi, sono delle sopravvissute che hanno visto morire un figlio o un’amica o amico durante il viaggio. Ma le motivazioni che spingono oggi le donne a partire non sono diverse da quelle delle donne che sono arrivate in Italia 25 o 30 anni fa dall’Africa, in genere trovando lavoro come domestiche. Quello che è cambiato sono le politiche dei paesi europei nei confronti dei migranti.
Come si vive il tempo dell’attesa?
Come si vive il tempo dell’attesa? L’autrice ha intervistato molte donne sia in Italia che a Malta, “ho cercato oltre alle loro storie anche tracce di resistenza e di autonomia; nella migrazione ci sono risorse, reti sociali e capacità di andare avanti. Ho guardato nella banalità del quotidiano, nella cura del corpo; nel sentirsi collegate al mondo grazie a internet”. Quello a cui tutte tendono è riprendere il controllo del proprio tempo, poter raggiungere gli amici e i parenti stabilitisi in paesi europei diversi da quelli di arrivo e riconquistare così il diritto alla mobilità che le regole europee precludono a chi migra.
Testo di Daniela Garavini