Riportiamo integralmente l’articolo di Diego Motta pubblicato da Avvenire sabato 10 giugno 2023 che parla delle forti critiche che ha suscitato l’accordo europeo da parte di chi si occupa di accoglienza e integrazione sul campo

L’assenza di vie legali per l’accesso dei migranti, la conferma senza modifiche del ruolo decisivo dei Paesi di primo approdo, i ricollocamenti non obbligatori: il giorno dopo, il “Patto per i migranti” salutato con enfasi dalle istituzioni comunitarie e dalla maggioranza dei Paesi mostra già limiti e contraddizioni. Prendiamo la cornice, innanzitutto. «L’Ue manca ancora una volta di quella visione programmatica necessaria a governare un fenomeno complesso e strutturale come le migrazioni» commenta padre Camillo Ripamonti, presidente del Centro Astalli, secondo cui è proprio «il diritto d’asilo» a essere adesso «sotto attacco». Alla fine, a vincere è stata soltanto la burocrazia, con «cavillosi compromessi al ribasso». Alla responsabilità di farsi carico dei migranti approdati sulle coste europee di un altro Paese, si può così derogare attraverso la modica cifra di 20mila euro per persona non accolta, mentre sul delicato tema dei rimpatri la libertà di movimento dei singoli Paesi è assicurata, basta accordarsi con Stati di transito o Stati terzi. Ma di quali Paesi stiamo parlando? Il “modello” è forse la Libia o la Turchia? Inutile dire che, all’orizzonte, sembrano stagliarsi ombre che si pensavano cancellate come quelle dei respingimenti, piuttosto che pratiche di ingresso organizzato e civile.

E’ proprio il diritto d’asilo a essere adesso sotto attacco.

«C’è una domanda inevasa, su tutte – sottolinea Christopher Hein, professore di diritto e politiche delle migrazioni alla Luiss di Roma -. Come si arriva in Europa a chiedere protezione e asilo? Se il 90% dei richiedenti asilo giunge oggi nel Vecchio continente in modo irregolare, com’è possibile che non si affronti questo tema in modo prioritario?».

Nessun piano d’accoglienza strutturato, dunque, e in cambio complicati meccanismi (tutti da precisare) nella gestione dei flussi tra Stati di primo approdo come l’Italia e Paesi destinatari dei cosiddetti flussi secondari come la Germania. Cosa accadrà quando un migrante verrà rimandato indietro, dentro i confini della stessa Europa? «Ora scatterà l’imperativo alla riammissione, con il ritorno nel Paese in cui si è fatta domanda – osserva il vicepresidente delle Acli, Antonio Russo -. Di questo passo, saremo costretti a giustificare la riapertura di strutture come gli hotspot, dove ospitare i profughi di ritorno. Ne siamo consapevoli?».

Il principio è quello applicato con la Turchia: paghiamo qualsiasi dittatore per fare il lavoro sporco che noi non possiamo fare.

La logica sembra essere quella dello “scarico di responsabilità”, piuttosto che quella della “presa in carico”, prevista dai trattati e dalle norme internazionali fino a questo momento. «Niente di nuovo sotto il sole – continua Russo -. Il processo di esternalizzazione delle frontiere va avanti e non si interrompe mai, secondo il principio: mandiamoli altrove, sempre più lontano». È dello stesso parere, padre Ripamonti, quando ricorda che «in Europa da anni è in atto una fuga dalle responsabilità comunitarie. Istituzioni nazionali e sovranazionali impieghino ogni risorsa e sforzo a salvare vite umane, ad aprire vie legali di ingresso, a investire in accoglienza e integrazione».

Di più: secondo Filippo Miraglia, responsabile Immigrazione di Arci, siamo in presenza di «un salto di qualità verso la negazione del diritto d’asilo. È il tentativo – prosegue – di cancellare il principio di non respingimento, che è il principio cardine della Convenzione di Ginevra. Se possiamo respingere verso Paesi che ciascun governo europeo può decidere essere sicuri chiunque arrivi alle nostre frontiere, abbiamo di fatto cancellato con un colpo di spugna ogni possibilità di chiedere asilo in Europa».
Si riproporrebbe in tal modo, a livello continentale, lo stesso scenario che la società civile nel nostro Paese sta contrastando in ogni modo: la deriva emergenziale, la messa in stato di irregolarità permanente di centinaia di migliaia di vite umane, costrette a vagare da un confine all’altro per trovare un posto sicuro. Uno scenario che forse la Commissione, molto impegnata a trovare una sintesi equilibrata tra istanze nazionali oggettivamente diverse, ha finito per sottovalutare.

«Il principio – spiega Miraglia – è quello applicato con la Turchia: paghiamo qualsiasi dittatore per fare il lavoro sporco che noi non possiamo fare». Di questo passo, però, la politica dello scaricabarile è destinata a innescare soltanto altre crisi umanitarie.


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