Il rap come terapia e via per l’educazione lungo il cammino di scoperta della propria identità multicolore: la storia di Amir Issa ospite al Festival lunedì scorso apre la strada per nuove riflessioni sulla generazione di Italiani con un passato migratorio alle spalle.
«Io sono romano, di Tor Pignattara e su questo non ho dubbi. Sono italiano con un po’ di sangue egiziano nelle vene – lo sguardo di Amir Issa, artista ed educatore di 43 anni, è fisso dietro un paio di occhiali con la montatura trasparente – la storia della mia identità però non è stata facile e se mi sono salvato è colo grazie alla musica rap.»
La storia della famiglia di Amir affonda le radici nei primissimi movimenti di immigrazione in Italia dal nord Africa, con una vicenda di amore complessa: suo padre, egiziano, si sposta in Italia per studio e conosce una ragazza della Ciociaria di cui si innamora. La famiglia di lei però è ancora molto legata all’ideologia fascista e non può sopportare che la figlia si sposi con un africano musulmano. I due comunque mettono su famiglia nonostante le opposizioni, ma non va tutto per il meglio. «Sfogliando gli album di famiglia si vede una prima parte, nei miei primi anni di vita, con foto di una famiglia normale, vacanze, persone felici, poi all’improvviso mio padre scompare dalle immagini. – Amir ripercorre la propria infanzia – È successo che mio padre è finito in carcere e da quel momento la sua vita è stata un continuo entrare e uscire, con problemi di tossicodipendenza quando era a casa e così io, mia mamma e mia sorella siamo finiti in uno stato di povertà.»
Sono gli anni delle elementari e il piccolo Amir si trova a dover fronteggiare da un lato la vergogna di avere un papà in prigione, dall’altro la difficoltà di capire la propria identità. La mamma, con l’intenzione di proteggerlo e farlo sentire italiano come i suoi compagni, inizia a chiamarlo Massimo e lui rimane convinto di chiamarsi così finché non legge il proprio vero nome la prima volta che tiene in mano un proprio documento.
Il rapper racconta la propria biografia anche in un libro pubblicato nel 2017 da Chiarelettere “Vivo per questo”: «In quel periodo reagivo a tutto questo con il silenzio, ero molto chiuso, andavo poco volentieri a scuola e ancora meno volentieri stavo a casa. La mia vita era stare in strada e so che era un posto pericoloso: io sono riuscito a trovare la mia via solo grazie ad un incontro casuale con la musica rap.”
Amir ricorda che era stata sua sorella a portare a casa una musicassetta da cui aveva ascoltato il primo brano di quel genere musicale che gli avrebbe cambiato la vita: era una musica “parlata”, facile da creare anche con mezzi semplici. «È questo l’elemento che rende il rap così semplice da avvicinare: ti basta una base registrata, un foglio di carta e puoi buttare giù rime da recitare sulla musica: non serve saper cantare né saper suonare per esprimersi.»
È proprio grazie a questa semplicità che l’Amir quindicenne inizia a sfogare tutta la propria rabbia e incertezza repressa rimandola su di una base, in un esercizio liberatorio che definisce terapeutico e pedagogico. Negli anni successivi inizia a registrare i primi dischi autoprodotti mentre si mantiene lavorando nei locali come lavapiatti, finché nei primi anni Duemila un’etichetta discografica si interessa a lui e a poco a poco riesce a concretizzare il sogno di vivere di rap. «L’attenzione mediatica che ad un certo punto ha avuto su di me è stata un’occasione per parlare a nome di altri ragazzi come me, con una storia di migrazione alle spalle: tutti i nostri vissuti parlano di una grande ricchezza culturale insieme a molti pregiudizi da parte dei nostri concittadini. Ci vogliamo sentire come tutti, italiani perché nati e cresciuti in questo Paese.»
Amir si schiera vigorosamente nella promozione di nuove vie legali per il riconoscimento della cittadinanza italiana e per costruire insieme un Paese in cui l’idea di Italiano non sia più automaticamente associato al colore della pelle.
Mentre si consolidava la propria posizione artistica, Amir ha iniziato anche un’attività educativa in scuole di periferia e istituti di pena, con l’obiettivo di condividere con bambini e ragazzi con storie simili alla propria lo strumento del rap per sfogarsi e raccontare la propria identità: «Vorrei che i ragazzi capissero che anche in situazioni faticose, non siamo mai sottomessi ad un destino ineluttabile, come me: quanti potrebbero pensare che un figlio di uno straniero tossicodipendente e delinquente possa arrivare a vivere una vita bella e significativa?»
(Simone Garbero su “La voce e il Tempo” 1/10/2023)