“Fra i potenti del mondo c’è chi è sedotto dalla tentazione della guerra: così come è stato in passato, un nuovo conflitto su vasca scala muove da grandi interessi di pochissimi, a cominciare dal business della corsa agli armanenti. Le conseguenze le vediamo ogni giorno in Ucraina e Palestina, ora anche in Libano, dopo che si è diradata la polvere dei bombardamenti e si identificano le vittime civili, fra cui tanti bambini. La tentazione di estendere le guerre è sotto i nostri occhi. Si farà, temo. Probabilmente io, che ho 82 anni, non ci sarò più. Dobbiamo metterci in guardia da questa lunga vigilia e fermarla.”

Enzo Bianchi, ex priore della Comunità di Bose, parla sotto il tendone bianco di Terra Madre, mentre tutt’intorno ferve la vita apparentemente frenetica del Salone del Gusto, organizzato sul fianco del Parco Dora e ricavato sui resti di un’archeologia industriale – i capannoni della più grande fonderia della città che è stata dell’auto – ora riutilizzata anche per i riti religiosi musulmani e in questi ultimi giorni per far reincontrare le donne e gli uomini di un esperimento sociale di segno contrario alla guerra: Terra Madre. Ossia: 10 mila comunità di contadini che hanno messo radici in 160 paesi del mondo sviluppandosi in base ad un’idea di Carlin Petrini, noto per le sue battaglie sulla importanza della biodiversità. Una traiettoria ricca di valori da condividere come motore di una ricerca che ci riporti alla dimensione di un’unica grande comunità umana. Utopia di cui, nel confronto pubblico con Bianchi, Petrini definisce le architravi, inserendovi quella di un’ “austera anarchia”.

La curiosità per questo pensiero ci ha portato ad ascoltare i due vecchi amici dalle radici personali così diverse (e che si riversano tuttora nelle traiettorie delle loro parole, però coincidenti nei ragionamenti di ciascuno). C’erano decine di giapponesi giunti per l’appuntamento annuale di Terra Madre e torinesi con in mano il programma del Festival dell’Accoglienza che ha inserito nel proprio calendario di appuntamenti culturali il confronto fra il religioso e il laico. C’era chi aveva in mente il fecondo dialogo di papa Francesco con Petrini, nato sugli sviluppi dell’encicicla Laudato sì e riflessosi nella successiva Fratelli tutti: ispirato dalla comune passione per la vita e le lezioni rivoluzionarie di Francesco d’Assisi. Così come ha ricordato il moderatore Stefano Stimamiglio, direttore di Famiglia Cristiana, nell’introdurre il confronto sulle tre parole scelte, cruciali per un futuro del Pianeta che non sia di desertificazione: Cibo, pace, fraternità.

Petrini parte da una constazione che i numeri rendono inattaccabile:

“L’attuale sistema alimentare, da solo, provoca la dispersione nell’ambiente del 32 per cento di anidride carbonica, quello dei trasporti il 17 per cento. Secondo: il sistema alimentare produce cibo sapendo di doverne buttar via tantissimo: il 33 per cento, equivalente ad un miliardo e mezzo di tonnellate. Ciò è tanto più grave rispetto a tutte le persone, i bambini su tutti, che continuano a morire di fame.”Aggiunge: “E’ ancora molto diffusa la convinzione che le risorse del pianeta siano infinite. Non è vero. Abbiamo davanti una grande sfida: l’alleanza fra produttori e cittadini contro il consumismo compulsivo. Perché i contadini? Hanno manifestato a Bruxelles per testimoniare che non riescono nemmeno a rientrare dei costi.”

Petrini indica chi ne porta la maggiore responsabilità: “La grande distribuzione. Determina la politica dei prezzi (e lo stile dei consumi), a cominciare da quelli bassissimi pagati ai produttori. Se verrà acquisita dal settore commerciale dell’online, i contadini ne saranno schiacciati.”

Non c’è spazio in questo scenario di rapporti di forza economici per un reale “new deal green”, che sia portatore di valori condivisibili fra produttori e consumatori: la qualità del cibo, il rispetto per la Terra, e naturalmente per il lavoro della terra. Petrini lo dice chiaramente: “Oggi il cibo che arriva in tavola non è più espressione di valori.” Si pensa subito al cibo spazzatura e a tutte le sue negative conseguenze sulla salute, agli stessi processi produttivi e alle forzature che ne sono alla base. Attorno all’area del dibattito si estendono gli stand del Salone del Gusto, promessa di buona cucina. Ma quei prodotti costano di più del cibo spazzatura. Tant’è che, ricorda Petrini, la spesa per il cibo drena attualmente il 9 per cento dei salari medi. E’ il grande appeal del consumismo: mangiare male, mangiare tanto. Obesità, diabete, malattie vascolari sono fra le maggiori cause di morte che gli epidemiologi segnalano nei loro report per combattere certi stili di vita.

Negli anni 60 – insiste Petrini – per le famiglie mangiare costava di più: il 32 per cento degli stipendi.” Erano il tempo del boom e di una spietata selezione naturale nascosta dietro la vergogna dei manicomi e delle pratiche che si effettuavano sui poveri più fragili. Il progresso è poter spendere di meno, non importa che cosa si compra? Oppure non è così in termini assoluti, considerando l’abbattimento dei redditi reali dei più nei sessant’anni trascorsi, fra processi inflattivi e recessivi, non di rado gli uni e gli altri insieme, e le politiche economiche reali.

Petrini si concentra sulla critica al sistema scegliendo di puntare su un fenomeno ormai di sistema: il caporalato. Dice, facendo l’esempio più stridente, quelle delle colline di casa sua, fra Langhe e Roero: “La grande distribuzione non sa governare il limite. Nelle mie campagne si produce il Barolo a 50 euro a bottiglia. E molti produttori demandano la raccolta dell’uva a pseudo cooperative che sfruttano nella maniera più indegna i migranti protagonisti della vendemmia. Sappiamo come. Sappiamo pure che alla base c’è il sistema del caporalato in grado di ridurre al minimo il costo della manodopera. Quei produttori si giustificano sostenendo di non gestire il lavoro che viene effettuato nelle loro vigne, e pure questo atteggiamento è indegno. Io il vino da loro non lo compro più. Questa è la sfida che, come cittadini e compratori, dobbiamo a nostra volta sostenere.

Il cibo che, per arrivare sulle nostre tavole, passa attraverso lo sfruttamento del lavoro, diventa strumento di ingiustizia sociale, mentre il rispetto che, nel ragionamento di Petrini, si deve avere per il valore della trasformazione del lavoro dei campi in nutrimento porta ad una diversa ripartizione del controllo dei prezzi. Possibile se si sceglie di mangiare meglio e meno per la salute di tutti. Gli economisti la chiamano decrescita. I filosofi decrescita felice. Con tutti i vantaggi che possono derivarne per la salute e lo stesso ambiente in cui si vive.

Il paradigma che ne consegue, in linea con la consapevolezza dei processi di antropizzazione pericolosamente in atto (Petrini fa l’esempio del “Mediterraneo ormai tropicalizzato”) è il ritorno ad uno stile di vita più semplice e austero. Proposto dalle stesse necessità economiche di tanti: “La mia piccola città ha 28 mila abitanti e sino ad anni fa vi lavoravano 7 ciabattini. Scomparsi tutti meno uno: buttavamo via le scarpe anziché farle riparare. Adesso il ciabattino rimasto su piazza è persino coccolato purché non si ritiri. Cominciamo a fare i conti con la cultura del Pil anche nelle Langhe: ha portato a svuotare le case di abitanti e a riempirle di B&B e di turisti, ad aprire ristoranti stellati e a chiudere osterie.” La sua traiettoria lo riporta al passato: “Dalle mie parti, note per tutto l’interesse economico che muovono, non ci sono più botteghe, non ci sono nemmeno più i preti, non ci sono più comunità. Questo è un processo di impoverimento di cui non si tiene quasi mai conto.

Cosa intende dire Petrini lo spiega Bianchi allargando l’orizzonte all’ultima parola chiave del loro dialogo: fraternità. Dice Bianchi:

“Dalla Rivoluzione francese in poi sono state fatte molte battaglie per la libertà e l’uguaglianza. Della fraternità, invece, ci si è dimenticati in fretta. La fraternità è la conquista più faticosa per il genere umano, educato al suo contrario: vedere nell’altro un diverso che sottrae spazi e risorse. L’antidoto è la disponibilità all’ascolto dell’altro, imparare a conoscerne le ragioni, a valorizzare gli uni con gli altri le diversità. La fraternità è una conquista quotidiana molto faticosa ma è la più importante semina della comprensione e della pace fra vicini di casa o di territorio, fra chi nasce in un posto e chi vi arriva da migrante.”

Petrini ha ideato il movimento di Terra Madre allo scopo di riscoprire il valore della comunità e ne mostra con orgoglio i promettenti germogli. Ma la conclusione che trae per un centinaio di persone in ascolto è di avvertimento: “Per la scorsa edizione di Terra Madre erano qui con noi a discutere insieme un israeliano e un palestinese. Il primo era un produttore di formaggi. Il 7 ottobre di un anno fa sua moglie è stata uccisa da Hamas sotto gli occhi dei loro due bambini, rapiti insieme a lui. I bambini sono tornati dalla prigionia, lui no. Il 30 ottobre 2023 è invece morto il contadino palestinese, coltivatore di olive. Raccoglieva le sue olive insieme con la moglie e i loro due bambini, anch’essi testimoni della morte del padre, ucciso dal fucile di un colono israeliano alla presenza di soldati della stessa nazionalità che stavano a guardare. Quei quattro bambini che disponibilità avranno per il dialogo e per la fraternità?

Le storie parallele di Dror e Bilal anche nella morte sono il messaggio più potente che il dialogo fra “due vecchi amici” e la sua necessità potessero trasmettere.

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