Pubblichiamo di seguito l’interessante approfondimento di Alberto Perduca, uscito sul numero 9 della rivista quindicinale Rocca della Pro Civitate Christiana di Assisi.

Quando si parla di Africa affiora talora il riflesso di rappresentarla come un mondo indifferenziato, oltre che lontano e poco decifrabile. L’atteggiamento viene da lontano. Nel 1879, celebrando l’abolizione della schiavitù nelle colonie francesi, avvenuta nel 1848, Victor Hugo pronunciò il Discorso sull’Africa nel corso del quale la presentò come una terra senza storia:

«L’Asia ha la sua storia, L’America ha la sua storia, l’Australia stessa ha la sua storia. Ma non l’Africa, una specie di leggenda vasta ed oscura l’avvolge».

Il giudizio era del tutto coerente al diffuso convincimento che il vecchio Continente, con la Francia in prima linea, dovesse assolvere ad una vera e propria missione civilizzatrice.

Nel suo Discorso, Victor Hugo, con la magniloquenza che gli era caratteristica, non esitò ad aggiungere che

«Nel XIX secolo l’uomo bianco ha fatto del nero un uomo, nel XX secolo l’Europa farà dell’Africa un mondo».

Spirito del tempo, verrebbe da dire se appena si ricorda che fu proprio in quel periodo che le potenze europee – su impulso anche della Conferenza di Berlino del 1884/5 – intensificarono il dominio sui territori africani.

Parliamo di Afriche

Oggi l’Africa – grande tre volte l’Europa, popolata da oltre 1.200.000 persone e ricchissima di riserve strategiche per il mondo intero – va invece letta come una terra dalla lunga storia diversificata, composta da un mosaico di 54 Paesi sviluppati in misura tutt’altro che omogenea, con regioni interconnesse agli altri Continenti in modo assai vario. Non a caso, alcune discipline preferiscono ormai parlare di Afriche e cioè di una pluralità di aree con proprie specificità di passato, presente e futuro. Vi è però un campo in cui può avere tuttora senso osservare l’Africa nel suo complesso. È quello della tutela dei diritti fondamentali perché nessun grande quadrante del Continente si sottrae al peso di almeno tre principali indicatori negativi che si alimentano a vicenda.

Oggi l’Africa – grande tre volte l’Europa, popolata da oltre 1.200.000 persone e ricchissima di riserve strategiche per il mondo intero – va invece letta come una terra dalla lunga storia diversificata, composta da un mosaico di 54 Paesi sviluppati in misura tutt’altro che omogenea, con regioni interconnesse agli altri Continenti in modo assai vario. Non a caso, alcune discipline preferiscono ormai parlare di Afriche e cioè di una pluralità di aree con proprie specificità di passato, presente e futuro.


Vi è innanzitutto la guerra incessante, fattore non solo di distruzione ma anche di oltraggio di quei diritti minimi – quali vita, integrità fisica e libertà – che andrebbero comunque protetti a favore in primo luogo dei non combattenti. Il voluminoso World Report 2023 pubblicato da HRW (l’Ong globale Human Rights Watch) segnala che nell’anno trascorso almeno 15 conflitti – tra cui quelli in Burkina Faso, Camerun, Congo (Rdc), Etiopia, Mali, Mozambico e Sud Sudan – vedono sia le forze governative che i gruppi armati ribelli rendersi massicciamente responsabili di atrocità e
abusi contro le popolazioni civili.

Segue il terrorismo debordante – soprattutto di stampo jihadista –, veicolo di morte ed oppressione e nel contempo detonatore di dure risposte securitarie che poco o nullo spazio lasciano ai principi dello stato di diritto ed al rispetto della persona. Stando al Global Terrorism Index 2022, nona edizione del rapporto annuale che Iep (l’Institute for Economics and Peace di Sydney) pubblica in merito alle tendenze del fenomeno su scala mondiale, nel 2021 le persone uccise dagli attacchi terroristi nel mondo sono 7.142 e il 48% di queste cadono nella sola Africa subsahariana. Del resto, sui dieci Paesi del pianeta che maggiormente soffrono l’impatto del terrorismo – per numero di morti, feriti e attentati – la metà sono africani e precisamente Somalia, Burkina Faso, Nigeria, Mali e Niger. Nel 2022, la situazione, lungi dal migliorare, registra la diffusione e l’incremento dei movimenti terroristi ed insurrezionali anche sulle coste dell’Oceano Atlantico – Benin, Costa d’Avorio, Ghana e Togo – e dell’Oceano Indiano – Mozambico.

Vi è infine la democrazia troppo fragile, freno all’esercizio delle libertà, allo sviluppo ed al superamento delle diseguaglianze. Su sito della catena televisiva francese TV5Monde si rinviene una cartina dell’Africa che con diversi colori mette in evidenza gli Stati democratici, quelli autoritari e quelli ibridi – dove convivono pratiche autoritarie
ed elezioni. Colpisce il fatto che la prima categoria di Stati rappresenti meno del 20% del totale. L’illustrazione si fonda sui dati che Idea (l’International Institute for Democracy and Electoral Assistance con sede in Stoccolma) elabora per il 2021. Anche su questo terreno nei 12 mesi successivi il quadro generale si deteriora come dimostrano
il duplice colpo di stato militare consumato in Burkina Faso e quello tentato in Guinea-Bissau, le manifestazioni antigovernative con decine di morti in Ciad, il presidenzialismo sempre più autocratico in Tunisia.

Le Carte dei diritti e il loro difficile cammino

Sennonché questa difficile realtà non si svolge nell’assenza totale di regole. Limitando lo sguardo al Continente nel suo insieme, da decenni è in costruzione un quadro di diritto internazionale volto a garantire anche le persone.

Una delle strutture portanti è costituita dalla Carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli (1981), oggi ratificata dai 54 Stati. In essa vi si ritrova un ampio catalogo di tutto ciò che ha da essere tutelato: l’uguaglianza, l’inviolabilità, la dignità, la vita, l’integrità, la coscienza, il credo religioso, la manifestazione del pensiero, l’associazione, la riunione, la circolazione, la salute, l’istruzione, l’informazione, l’accesso a pubblici servizi e giustizia, l’asilo. Non solo, ma – come esplicitato dal primo articolo della Carta – gli Stati si impegnano ad adottare tutte le misure necessarie per dare effettività a tale catalogo. Nei lustri che seguono il dispositivo viene integrato e rafforzato dalla Carta africana sui diritti e il benessere del minore (1990), dal Protocollo sui diritti delle donne (2003) e dalla Convenzione per la protezione e l’assistenza degli sfollati interni in Africa (2009). Al di là delle regole e dei principi fissati in tali Accordi, anche in Africa vengono attivati organismi sovranazionali per vigilare affinché gli Stati rispettino quei testi che loro stessi hanno concordato e di cui hanno accettato il primato. È il caso della Commissione africana sui diritti dell’uomo e dei popoli con sede a Banijul (Gambia), cui dal 1987 spettano tre compiti primari: ricevere e valutare le comunicazioni sui diritti umani – e sulle lamentate violazioni – provenienti dagli Stati, dalle organizzazioni e dagli individui; effettuare missioni di inchiesta; adottare pareri e raccomandazioni.

Nel novembre 2002, in occasione del 35° anniversario dalla fondazione, il pur esigente Hrw valuta il lavoro della
Commissione «più importante che mai» e sollecita gli Stati «tanto a garantirne l’indipendenza che a rispettarne le decisioni». In tempi più vicini, a quest’organo si affianca la Corte africana dei diritti umani e dei popoli, vero giudice collegiale istituito nel 1998 da un Protocollo ad hoc con il mandato di risolvere le controversie di interpretazione e applicazione degli Accordi internazionali ratificati dagli Stati africani in tema di diritti umani.
Chiamata a un ruolo analogo a quello assolto dalla Corte europea dei diritti dell’uomo e dalla Corte interamericana dei diritti umani, la Corte africana, con sede ad Arusha (Tanzania), in funzione dal 2006, riesce ad esprimere una limitata operatività. Come si desume dal suo ultimo Rapporto annuale, nei primi 15 anni di funzionamento questo tribunale decide unicamente 177 ricorsi sui 325 ricevuti. Più ragioni possono dar conto di questo risultato, in sé modesto e tanto più inadeguato se si considera il drammatico stato dei diritti umani in cui l’Africa continua a versare. Da un lato, pesa la limitatezza di risorse di cui la Corte soffre, ben riflessa nel numero di giudici che la compongono: appena 11, meno di un quarto dei colleghi che siedono alla Corte europea dei diritti dell’uomo la cui giurisdizione copre 46 Stati con una popolazione complessiva che non supera di molto la metà di quella africana. Dall’altro, rimane marcata la reticenza di molti Stati africani a riconoscere come «loro» la Corte di Arusha: a tutt’oggi la sua competenza viene accettata soltanto da 34 Paesi e, dato vieppiù emblematico, la possibilità di accedervi direttamente da parte non solo degli Stati ma anche degli individui e delle organizzazioni non governative, è ammessa da un’esigua minoranza di 8.

Ancora un pesante debito di giustizia indipendente

Dunque, nonostante il pur lento progresso del diritto internazionale su scala continentale, il ruolo degli Stati rimane centrale nella tutela dei diritti fondamentali. Tocca agli Stati accettare convintamente che almeno le più gravi violazioni dei diritti fondamentali rivestono una dimensione universale e come tali non possono venir sempre confinate al rango di meri affari interni. E, ancor prima, tocca agli Stati organizzare la loro giustizia in modo da dare vicina, pronta ed effettiva tutela a chi tali violazioni ha sofferto.
Qui purtroppo l’Africa, o meglio i Paesi che la compongono, soffrono in generale di un notorio e pesante debito di giustizia indipendente, integra, professionale, con risorse adeguate ed accessibile. Nel 2015 i Capi di Stato e Governo dell’Unione africana adottano l’Agenda 2063, ambizioso programma per «un’Africa integrata, prospera e pacifica, guidata dai suoi stessi cittadini e che rappresenta una forza dinamica nell’arena internazionale». Tra i vari obbiettivi fissati, l’Agenda intende «radicare i valori e le pratiche democratici, i principi universali dei diritti umani, la giustizia e lo stato di diritto». Di certo, dopo 8 anni la metà non si è avvicinata ma il tempo non è scaduto. E poi la forte resilienza dell’Africa – soprattutto della società civile contro gli abusi e le ingiustizie – rende lontana quell’immagine di notte della civiltà evocata due secoli orsono da Victor Hugo.

Testo di Alberto Perduca

Foto di Marek Studzinski su Unsplash

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