Vendeva rose per strada,  ora è socio e chef di un grande ristorante a Torino 

Il giornalista Luca Iaccarino del Corriere della sera  racconta questa bella storia di fatica, impegno e integrazione

«Hai voglia di lavorare? Posa le rose e vai in cucina». Questa frase pronunciata da un oste torinese la notte del 2 marzo 2009 segna ufficialmente l’inizio della nuova vita di Rakib Uddin: a undici anni di distanza Rakib è socio, patron e chef de La Gallina Scannata, uno dei più fortunati ristoranti di pesce del capoluogo piemontese. Non capita a tutti i ragazzi venuti dal Bangladesh. Anzi, a pochi, pochissimi, ma quella notte l’oste ci vede giusto: Rakib ha voglia di lavorare. E volontà. C’è da scommettere che se non si fosse presentata quell’occasione, ne avrebbe colta un’altra. La volontà trova sempre la strada. Del resto il fatto che Rakib non fosse come gli altri si sapeva. A inizio millennio nella sua città – Noakhali, tra il verde lussureggiante e il mare del Golfo del Bengala – sono tanti i ragazzi che sognano di partire, «credevamo che in Arabia Saudita, a Dubai, in Europa tutto fosse bello e facile». Ma andarsene non è semplice: Rakib è di famiglia borghese, tuttavia l’azienda del padre è in difficoltà e deve vendere due terreni per mettere assieme i 16mila euro che costa il viaggio. «Grazie al Decreto flussi del 2007 – dice ora – sono venuto in Italia con i documenti in regola e un contratto: ma quando sono arrivato a Torino ho scoperto che il posto di lavoro promesso non esisteva».

Diciott’anni, nessun parente, non una parola di italiano, «non avevo nemmeno vestiti adatti a un freddo che non conoscevo». Così Rakib inizia la vita che fanno tutti gli immigrati dal Bangladesh: venti in un appartamento, cento euro d’affitto, lavoretti per sommare i soldi necessari per vivere: scaricare casse al mercato, aiutare i muratori, tante ore, tanta fatica, pochissimi soldi. «Quando chiamavo casa però dicevo sempre che andava tutto bene: i miei avevano speso un capitale per mandarmi in Italia, non volevo né deluderli, né farli soffrire». Poi gli propongono di vendere rose: 50 centesimi per fiore, venti euro in una notte. A lui sembra un’opportunità, un modo per entrare nei locali e farsi conoscere. E così succede. Quella sera del 2 marzo 2009 il ristorante Scannabue dello chef Paolo Fantini e del maître Gianlugi Desana, tra i più amati di Torino, è nei guai. Una cuoca non s’è presentata. Rakib era già passato per chiedere se cercassero qualcuno, Fantini lo riconosce: «Hai voglia di lavorare? Posa le rose e vai in cucina». Rakib torna giorno dopo giorno, è serio e affidabile, all’inizio è lento ma impara con gli occhi, accelera tanto che lo assumono. «Quando ho firmato il contratto mi son sentito un re». La grande difficoltà rimane la lingua, «lo chef mi chiedeva di passargli oggetti di cui non conoscevo il nome». A un passo del ristorante vede degli stranieri di fronte a un’associazione, l’Asai, e scopre che fanno corsi di italiano: partecipa. Prende la licenza media, poi il diploma delle superiori: «Dalle 8 alle 14 andavo a scuola, dalle 15.30 alle 24 al ristorante, e poi facevo i compiti fino alle due e mezza». Lavoro, studio e basta, non c’è tempo per nulla se non per un bicchiere di vino a fine servizio con cuochi e camerieri: «Lo so, è peccato per noi musulmani. Ma come fai a dire di no ai colleghi?». Sul maiale invece è del tutto intransigente.

Anno dopo anno Rakib diventa così affidabile che Fantini gli lascia la cucina: «Fai il servizio meglio di me». La fiducia diventa tale che quando Fantini e Desana aprono un nuovo ristorante di pesce, La Gallina Scannata, fanno di Rakib lo chef, poi lo chef-direttore (a capo di cinque cuochi e tre camerieri) e infine gli chiedono di entrare in società al 20 per cento. Lui accetta ed eccolo oggi, un cuoco-imprenditore di trentun anni che raggiungiamo nel suo grande appartamento, cinque stanze tutte per lui, non distante dal ristorante, nel vivace quartiere di San Salvario: mobili vecchi di chi ha trovato la casa ammobiliata ma tutto ordinato e lindo, «mi piace tener pulito e ho una signora delle pulizie dell’est che viene due volte la settimana».

La sua vita è solo lavoro: «Non ho una compagna, fossi la mia fidanzata mi lascerei tre volte al giorno», ride. Sul comodino c’è una pila di libri «sto facendo il corso da sommelier», dice mentre stappa una bottiglia di Chardonnay della Borgogna. Tra pochi mesi saranno dieci anni che è residente in Italia, dunque potrà chiedere la nazionalità, e lo farà. Questo è il suo Paese. «Ora c’è un nuovo Decreto flussi ma non sono previste figure nella ristorazione – si rammarica – e mi spiace perché vorrei portare qui il mio fratello più piccolo; gli altri miei fratelli e sorelle sono tutti andati alla Noakhali Science and Technology University, ma a lui piacerebbe venire. E io sarei felice di poter essere per lui quello che nessuno è stato per me, e di cui ho sentito tanto la mancanza: una guida».

  • Un buona notizia da Roma
    Kalma – nata a Roma nel 2017 – è una falegnameria e officina sociale “rifugio” per inoccupati e migranti. Nel 2020, la crisi legata al Covid, ha visto un numero crescente di domande di partecipazione e di formazione gratuita, sperando di trovare un nuovo lavoro nel futuro. Nello stesso anno due importanti riconoscimenti: quello dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati; quello per essere riconosciuti Falegnameria Etica da FSC Italia
  • Un’altra  buona notizia di integrazione e lavoro dall’Olanda:
    “Makers Unite” è una impresa sociale nata ad Amsterdam per sostenere l’inserimento dei rifugiati attraverso la manifattura creativa e il design, nei loro percorsi formativi si riscopre il proprio talento a colpi di idee e si riacquista fiducia negli altri, grazie alla manifattura e al dialogo. Un modello virtuoso che mette al lavoro persone provenienti da ventisei nazionalità, insieme a molte aziende locali.
    Adesso  approda a Milano, al ritmo incalzante della macchina da cucire, costruendo una rete con ong e cooperative sociali e mettendo al lavoro migranti e creativi locali.
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