Nel mese della canonizzazione del beato Giuseppe Allamano, il Festival dell’Accoglienza ha voluto dedicare un incontro l’1 ottobre, presso CAM Culture and Mission, ricco di storie ed esperienze delle Missionarie e dei Missionari della Consolata a Torino.
Riportiamo di seguito la testimonianza di Suor Maresa Sabena, impegnata dal 1994 nell’ascolto e nell’aiuto di migranti e in particolare di donne vittime di tratta presso la Pastorale Migranti dell’Arcidiocesi di Torino.
“Quando entrai nell’Istituto sognavo l’Africa come penso ogni missionaria della Consolata dei miei tempi; quando suor Bice, prima missionaria della Consolata impegnata nella pastorale migranti, mi invitò a collaborare con lei, mi sembrò una proposta irrealizzabile, sentii tutta la mia inadeguatezza, non ero mai stata in Africa, mai in America, non conoscevo quei popoli e quelle culture e sempre mi rifiutai.
Fin dal 1975 come missionarie della Consolata fummo presenti al servizio migranti della Diocesi di Torino. Suor Bice Levet ne diede l’inizio con la collaborazione per molti anni di una laica, Maria Rosa Cerrone, e la signora Adele Garimoldi. Si susseguirono poi parecchie Missionarie della Consolata: penso a suor Ignazia Pia Wamboi, suor Valenziana, suor Eugenia Bonetti, suor Augusta Galbusera, suor Orsola Curetti, suor Eugenia Tappi e suor Matildina Galliano.
Quando nel 1994 mi chiesero di sostituire per un breve periodo una sorella che aveva problemi di salute, accettai proprio perché era solo una sostituzione.
Nel frattempo il Governo indisse una sanatoria per chi non aveva documenti, ma aveva un lavoro (eravamo nel 1995). Nel 1998 avvenne un perfezionamento della Legge e nel testo unico, con alcuni articoli validi ancora oggi, si leggeva che le donne vittime di tratta disposte a denunciare i loro sfruttatori avevano diritto ad un permesso di soggiorno per motivi umanitari. Le donne dovevano essere seguite da un ente autorizzato dal Ministro dell’Interno, e predisporre con loro e per loro un programma di protezione e di integrazione sociale. L’ente doveva avere una persona autorizzata dalla Prefettura referente del progetto. A Torino furono quattro gli enti a candidarsi, fra i quali l’UPM. E fu allora che il direttore don Fredo Olivero chiese all’Istituto che mi consentisse di divenire referente della tratta per l’UPM.
Nel 1998 prestai in Curia a Torino giuramento di fedeltà alle linee della Diocesi, soprattutto nell’ambito della tratta.
Nell’arco degli anni furono più di 200 le donne che si rivolsero al nostro servizio. Fu un impegno grande per me, perché voleva dire prestare molta attenzione al racconto della loro storia di sfruttamento, spesso dei clienti che le accompagnavano, affinché potessero essere regolari sul territorio.
Molto importanti sono sempre stati i primi incontri; l’esito positivo dipende dall’empatia che si instaura all’inizio. Sono donne che hanno molto bisogno di parlare, ma che hanno paura di non essere capite, a volte a motivo della lingua; spesso anche perché le stesse parole possono assumere significati diversi per motivi culturali. Hanno paura di essere giudicate e tradite con la Polizia.
Quindi sovente dicono cose non vere, perché non ci conoscono e non hanno ancora fiducia in noi.
Proprio per questo abbiamo sempre curato molto l’ascolto libero da giudizi e da pregiudizi, fatto soprattutto con pazienza ed attenzione, senza interrompere, senza proporre soluzioni immediate, perché queste non potrebbero corrispondere alle loro situazioni e aspettative.
Il passo più difficile era quello di aiutarle nella compilazione della denuncia contro gli sfruttatori, accompagnarle in Questura per deporre la denuncia e ai processi. Iniziò, in quel periodo, la nostra collaborazione con il Sermig e con altri enti in Piemonte e in Veneto, soprattutto per l’accoglienza perché occorreva un posto protetto. Se la donna non osservava il programma, l’ente poteva far revocare il permesso di soggiorno.
Ora questo programma non si segue quasi più, perché tutto passa dall’asilo politico, più facile per le donne e meno impegnativo per l’ente; ma è anche una legge che non contrasta la prostituzione perché incide meno su chi le sfrutta. Per l’UPM fu ed è ancora un impegno grande, perché il permesso di soggiorno non è mai stato un traguardo finale, quanto invece un obiettivo preliminare, perché intervenendo con un’azione educativa e di accompagnamento la donna potesse recuperare fiducia in sé stessa e riscoprire la sua dignità.
Nel 1995 le persone nigeriane presenti a Torino (e il loro numero era elevato) di religione cristiana ma non cattolica ci chiesero di potersi trovare alla domenica nei locali della sede di allora dell’Ufficio Migranti, in via Parini, a leggere la Bibbia in inglese e pregare nella loro lingua. Nacque così, con l’aiuto dei miei Confratelli IMC soprattutto di Padre Rovelli, di Padre Franco Cocco e di Padre Discepoli, nacque il Gruppo Ecumenico che esiste ancora oggi, attualmente seguito da Padre John.
Di fronte ad atteggiamenti di rifiuto e di paura della gente verso le persone immigrate, soprattutto africane, l’UPM con i missionari della Consolata e il Gruppo Ecumenico organizzarono due convegni a livello cittadino: l’Africa si racconta e l’Africa che verrà, con interventi di donne e uomini preparati su alcuni temi più scottanti: la donna africana, la famiglia, la comunità, l’ospitalità, la vita, la morte, gli antenati, la religiosità popolare nel mondo del bene e del male.
Questo è stato il mio impegno maggiore fino a qualche anno fa.
Oggi molte cose sono cambiate, soprattutto la legislazione. Le donne cercano di avere un permesso di soggiorno con la richiesta dell’asilo politico per evitare di esporsi con denunce e processi. Le leggi attuali sull’immigrazione, sempre più restrittive, orientate verso l’espulsione che poi non possono eseguire, perché provengono da Paesi non sicuri, mantengono nell’irregolarità molte persone che avrebbero un lavoro e potrebbero essere utilissime nel nostro Paese.
Con le donne sfruttate – sono molte e sfruttate in modi diversi – cerchiamo tutti, noi operatori, di convincerle a dire la verità quando dovranno presentarsi in qualche Commissariato per denunciare lo sfruttamento o quando dovranno presentarsi in Commissione per l’audizione, per ottenere un permesso di soggiorno con richiesta di asilo politico. Le aiutiamo anche a preparare per iscritto ciò che dovranno dire in quell’occasione.
Credo di poter dire che l’impegno di tutti, dipendenti e volontari, è quello di ascoltare, condividere le sofferenze dei migranti che accogliamo, vedere insieme se ci sono soluzioni e cercare di sostenerli e mantenere vive le loro speranze e aspettative che qualcosa cambierà; ma soprattutto far sentire loro lo spirito di famiglia e la differenza che esiste fra un ufficio “scrivania e utente” e un servizio per un’esperienza di Chiesa e di Vangelo e ritengo molto importante il fatto che a svolgere questo servizio siamo in molti: religiose di congregazioni diverse, persone, uomini e donne con scelte di vita diverse.
Condivido pienamente quanto Sergio Durando, in un incontro con le Superiore della Regione Europa, disse e riporto le sue parole: “La Diocesi offre un servizio attraverso 13 cappellanie etniche in Torino, – e ha sottolineato – l’accoglienza è un creare fraternità, è sedersi, ascoltare, restituire dignità e la chiesa deve essere forte nell’impegno di tessere relazioni”. Ci fece notare come a tutti è richiesto un cambiamento culturale nell’accoglienza.
Questi sono i motivi che mi convincono sempre di più sulla validità del nostro impegno come missionari/e in questo settore. Inoltre ritengo molto importante la nostra presenza come missionarie/i della Consolata in UPM, specialmente in questi tempi in cui i diritti umani dei migranti sono molto a rischio. Importante condividere e sostenere gli obiettivi del servizio: accoglienza, attenzione alla tutela e alla difesa dei diritti di ogni persona e famiglia migrante.
Quando analizzo i dati delle persone che transitano in UPM mi rendo conto che la maggioranza non sono di religione cristiana, ma sono di religioni diverse dalla nostra, e giungono da ogni parte del mondo. Mi convinco allora, sempre di più, che l’UPM sia il luogo ideale per vivere in Europa, la missione ad gentes secondo il nostro carisma e lo spirito del Padre Fondatore: il bene fatto bene senza far rumore. Poco ma bene. A volte “il molto” può andare a scapito del bene.
In UPM sento di vivere pienamente un aspetto della missione ad gentes in Europa, in sintonia con ciò che richiedono le nostre Costituzioni e le decisioni prese nelle varie Conferenze regionali a livello di Istituto. L’invito cioè a favorire un’apertura verso le persone presenti sul nostro territorio di culture e religioni diverse, con una particolare attenzione alla donna.
Ho capito nel corso degli anni che è inutile per me sognare di raggiungere Paesi lontani se non vedo, se non amo e non aiuto quelle stesse donne che vorrei raggiungere nei loro Paesi e che oggi vivono accanto a me.
Oggi, a molti anni di distanza, non posso che ringraziare il Signore perché si è servito della mia povertà e fragilità per compiere la sua opera. Lo ringrazio per la vocazione religiosa missionaria, lo ringrazio per la missione che ha scelto per me, anche se molto diversa da quella che sognavo.
Sergio Durando mi ha chiesto di raccontare un incontro che mi ha lasciato un ricordo particolare: è molto difficile per me, perché ogni incontro lascia un ricordo. Per citarne uno quello di una donna sfruttata accompagnata dal poliziotto che l’aveva trovata per strada, suo posto di lavoro assegnato dalla sfruttatrice, piangeva e il poliziotto aveva capito che quella non era una sua scelta e l’aveva convinta e accompagnata da noi. L’avevo ascoltata con la mediatrice culturale, e aiutata a porgere la denuncia in Procura. Il Dirigente di allora che allora seguiva il fenomeno della tratta e motivato come noi a contrastare il fenomeno, contattò i colleghi che si trovavano a Benin City e li invitò a Torino a sentire la donna. Vennero e tornati in Nigeria verificarono la veridicità di ciò che la ragazza aveva detto loro e diedero protezione alla famiglia minacciata in Nigeria. Trasferimmo la ragazza in un’accoglienza protetta lontana da Torino, ma in Veneto, dove fece un percorso molto bello di cambio di vita e di integrazione, Si sposò ed ebbe due figli e con lei si instaurò un vero rapporto di amicizia. L’anno scorso mi venne a trovare con marito e figli ed ogni mese, dal 2006, ci sentiamo telefonicamente.
Non tutto purtroppo finisce così bene, ma ricordi belli sono tanti e ci aiutano a superare le difficoltà quotidiane.
Approfitto di questa occasione per ringraziare molto Sergio Durando e tutti gli operatori dell’UPM che, nonostante l’età, mi incoraggiano, mi sostengono ed aiutano in tutti i modi perché possa essere presente ancora in UPM”.
Suor Maresa Sabena