Ricoperte in fretta con la sabbia, le buche tra le dune e il costone di Morro Jable sono il forziere di chi ce l’ha fatta a sbarcare senza dare nell’occhio. È il cimitero dei passaporti, il capolinea dei diritti. Anche il camposanto degli sventurati è a portata di sguardo. Sopra, il paradiso dei surfisti. Sotto, l’abisso scuro dei disgraziati. Quasi 5mila migranti hanno raggiunto le Canarie quest’anno.
Un centinaio di loro risulta tra i morti e dispersi. Nel 2020 almeno 849 africani hanno perso la vita, a fronte dei 23 mila arrivati a terra. Così tanti non sbarcavano dal 2016. «Il reale bilancio delle vittime – precisa l’agenzia Onu per i migranti (Oim) – si ritiene che sia molto più alto». Per non venire riportati indietro, i migranti sfuggiti ai radar sotterrano i documenti d’identità, avvolti in gusci impermeabili, come le testuggini che vincono la risacca dell’Atlantico e vengono sull’arcipelago per garantire un futuro alla specie. Gli umani che qui sbarcano, invece, per avere un futuro devono nascondere il passato. Specialmente marocchini, senegalesi, ivoriani. Se non c’è modo di identificarli, non c’è modo di rimpatriarli.
Alcune volte le autorità li riportano indietro. Non nei Paesi di provenienza. Vengono consegnati alla Mauritania, dove la schiavitù è fuorilegge dall’81 ma è ancora praticata. Tutta la costa che dal Senegal risale verso Mauritania e Marocco, nei territori contesi del Sahara Occidentale, non è presidiata che da pescatori e contrabbandieri. Non ci sono marine militari a sorvegliare le acque territoriali, peraltro contese con la Spagna per questioni di pesca e altre vecchie ruggini postcoloniali. Una manna per i trafficanti. Specialmente quelli marocchini, che fanno salpare i barconi non dal punto più vicino (120 chilometri), ma da una spiaggia più lontana, dove possono operare indisturbati. Chiedono fino a 3mila euro a persona, con la promessa di appoggi logistici a terra. Chi rischia di più sono i subsahariani.
C’è chi si fa più di mille chilometri tra i flutti, con il cayucco in legno per metà riempito di riserve di carburante e per metà di merce in carne e ossa. A seconda del punto di partenza lungo la costa dell’Africa occidentale, le barche devono navigare da 400 a 1.500 chilometri, una distanza cinque volte maggiore a quella tra Tripoli e Lampedusa. Il più delle volte le correnti e gli implacabili alisei spingono dalla parte sbagliata.
Come i 60 morti di sole, di fame e di sete partiti il 5 aprile. Un elicottero iberico li ha avvistati per la prima volta quando erano trascorse tre settimane. I corpi erano distesi uno sull’altro: solo in 3 sono sopravvissuti. In Senegal la dissuasione passa dai tribunali. Sotto processo ci sono i fratelli Omar e Lamine Gueye, accusati della morte di Doudou Faye, un quattordicenne affogato durante un naufragio. I Gueye sono sospettati di essere dei trafficanti di esseri umani. Il padre del ragazzino è già stato condannato a due anni di reclusione perché, avendo finanziato il viaggio del figlio, è ritenuto corresponsabile della morte. Le condanne, però, non sembrano funzionare da deterrente.
Partono comunque, spinti dalle bocche da sfamare e da politiche di sviluppo che, in molte aree, semplicemente sono un miraggio. Da quando poi si sono riaccesi i conflitti in Mali e Burkina Faso la spinta verso le isole europee in acque africane è diventata inarrestabile. «L’Europa vuole il pesce del Senegal, ma non la sua gente» dice un ragazzo arrivato a inizio anno. Non vuole dire quanto ha speso per il viaggio. Ne ha vergogna, perché i suoi parenti si sono indebitati e ora lui ha in testa un solo scopo: «Trovare un lavoro, mandare i soldi alla mia gente».
Neanche della traversata vuole parlare. «Non riesco a dormire se ci penso». Solo tornare indietro gli fa più paura. Qualcuno, raccontano i pescatori di Gran Tarajal, uno dei porti da cui salpano le motovedette del Salvamento Marítimo, ogni tanto torna a dissotterrare il tesoro del cementerio dei passaporti. Succede quando i passeur hanno trovato un tir dentro cui far nascondere i più impazienti, nel viaggio dei traghetti verso il continente.
A pattugliare c’è solo il Salvamento, che dispone di motovedette, aerei ed elicotteri. Le Ong, anche volendo, non potrebbero sostenere i costi di distanze così elevate e che, per affrontare l’Atlantico, richiedono navi oceaniche. L’aumento degli arrivi e la crisi provocata dalla pandemia sono il tema più battuto dall’ultradestra. Così la diocesi delle Canarie insieme a diverse organizzazioni cattoliche ha voluto dare un segnale. «Di fronte al proliferare di false notizie e messaggi di rifiuto diventati popolari anche tra i cristiani stessi e gli abitanti dei nostri quartieri – spiega la Caritas delle Canarie – abbiamo sentito la necessità di offrire una parola positiva e pacificatrice».
Dai centri di permanenza le voci filtrano. Anche perché le autorità non hanno finora avuto un atteggiamento ostile con chi, come i sacerdoti, vuole vedere di persona. Padre Antonio Viera è il cappellano del Centro di internamento per stranieri (Cie) a Gran Canaria. E non le manda a dire: «I diritti vengono continuamente violati in termini di un’accoglienza dignitosa, perché fino a 1.800 persone sono state stipate nel molo di Arguineguín senza le necessarie misure sanitarie » ripete da settimane. «Le isole Canarie – aggiunge – non possono essere trasformate in un grande Centro di internamento. La soluzione passa attraverso l’apertura di corridoi umanitari e visti umanitari. La maggior parte delle persone è portatrice di un progetto migratorio, il cui termine non sono le isole Canarie, ma l’Europa». Anche ieri, per tutto il giorno, il bimotore del Salvamento Maritimo ha sorvolato in solitudine le acque al largo dell’arcipelago. Da lunedì non si ha notizia di un cayucco con 50 persone. Al cimitero dei passaporti nessuno li ha visti.
Per chi volesse approfondire leggi anche:
“Il vescovo: no ai ghetti nelle isole, risposte chiare per uscire dalla crisi”. Articolo di Nello Scavo pubblicato da Avvenire giovedì 6 maggio 2021