Lasciati morire in mare o riportati nelle prigioni libiche: questo è il destino di un numero ormai incalcolabile, e sempre crescente, di migranti che cercano di raggiungere le nostre coste partendo dalla Libia. Nello Scavo in un toccante articolo pubblicato Avvenire martedì 27 aprile 2021 partendo da alcune foto ci racconta chi erano i 130 dispersi del 21 aprile scorso.

 

Per chinarsi in direzione della Mecca danno le spalle al mare. Ma è dalla parte opposta che hanno l’appuntamento con i sogni e con gli incubi, ammesso che con il mare in tempesta e il buio della notte si possa ancora sognare. E’ questa l’ultima immagine degli ultimi desaparecidos del Mediterraneo. Abbandonati senza soccorso. Fatti sparire dai ragionieri delle vite a perdere: i trafficanti che li hanno dati in pasto al mare sapendo che quella notte il Mediterraneo non avrebbe smesso di ruggire. Condannati dall’inerzia di quanti, per dirla con papa Francesco, “possono aiutare, ma preferiscono guardare da un’altra parte”.

Sanno che quel giorno sono partiti tutti insieme, ma non sanno chi di loro è ancora vivo da qualche parte. Come sempre le autorità tripoline non forniscono informazioni. Non c’è modo di identificare i vivi, figurarsi i morti.

Il 21 aprile, quando hanno preso il mare, erano partiti almeno due barconi. I giovani nelle foto erano in quel gruppo. Circa 250 persone sui due grandi canotti che si piegano e si afflosciano a ogni onda. Forse per un’avaria al motore di fabbricazione cinese, un gruppo è rimasto bloccato dopo poche miglia, e i guardacoste non hanno dovuto percorrere troppe miglia per riportarli indietro e farli rinchiudere nella prigione, dove ad attenderli ci sono i tormenti che speravano di non rivivere mai più.​

Somali, sudanesi, eritrei. Inghiottiti per sempre. Non avranno diritto neanche a un nome sopra a un mucchio di terra. Perfino le poche immagini che di loro circolano, spesso non hanno un nome accanto. Però ci guardano. I due amici che avevano lavorato come operai, ma che poi sono finiti chissà come in un campo di prigionia, dove le vite dei neri si rubano per strada, anche casa per casa, per farne carne da riscatto. Oppure i ragazzi sudanesi, in posa spavalda, di chi non ha paura di sognare, e invece quella notte si sarà forse pentito anche solo di aver sognato.

Senza rotta né più un motore che spinge, navigare nell’oscurità a bordo di un gommone che si squassa vuol dire non sapere da dove arriverà la prossima spallata. Come nei film dell’orrore, quando sai che il mostro c’è, che ti farà male, ma non sai da dove ti prenderà: forse un’onda improvvisa da dietro, oppure un sobbalzo da prua, con il mare che travolge e spazza via, e a ogni scossone il gommone riemerge con qualcuno in meno. Fino a che non ci sarà più nessuno a cavalcioni dei tubolari sgonfi.

Prima della partenza i trafficanti li avevano portati in una casa ben arredata per girare un video promozionale. Immagini che dovevano servire a reclamizzare i servizi delle bande di Khoms che trafficano in esseri umani. Uno spot per far credere che in fondo la sosta in Libia non è così come dicono.

Che tanto poi si parte, e nella vecchia Europa sarà una nuova vita.

Le previsioni meteo la settimana scorsa erano tra le peggiori. Quando martedì 21 aprile il barcone è stato spinto tra le onde la nave di salvataggio più vicina navigava in direzione opposta, verso la Tunisia. Con le buone o con le cattive gli scafisti devono aver convinto i 130 a prendere il largo. Ed è stata la fine.

I loro volti stanno ora circolando tra i figli delle diaspore di mezza Africa. Le numerose immagini sono state raccolte fra gli altri da un attivista sudanese che si fa chiamare Mohamed Musa. Mostrano i ragazzi in posa prima della partenza, oppure ripresi in abiti eleganti durante qualche cerimonia prima di lasciare i Paesi d’origine. La volontaria francese Andrea Gagne, che raccoglie testimonianze dirette di rifugiati e prova a fornire supporto legale, ha ottenuto altre foto. Succede a ogni disgrazia. E’ la prova che tutti sanno del rischio. Ma che è sempre meglio morire in balia del mare, che restare vivi in balia dei capricci degli aguzzini.

“Se si fosse trattato di 130 morti europei o americani, la notizia sarebbe sui giornali di tutto il mondo – dice Andrea – ma poiché si tratta di migranti e rifugiati africani, allora il mondo può ignorarli”.

La ricostruzione dei fatti non smette di confermare come per lunghe ore si sia perso tempo prezioso per tentare un’operazione di salvataggio in tempo utile. La lettura delle email inviate dall’agenzia Ue Frontex fornisce nuovi dettagli.

Sono le 16.06 di giovedì 22 aprile quando Frontex risponde con una mail ad Alarm Phone, chiarendo che il giorno precedente un aereo dell’agenzia Ue per il controllo dei confini aveva avvistato il gommone segnalato dai volontari del “centralino civile”.

La gravità della situazione è nota. Frontex precisa: “In seguito alle condizioni di pericolo della barca in distress (termine tecnico con cui si definisce l’imminente naufragio, ndr) un messaggio radio “Mayday” è stato lanciato alle navi che transitano nell’area”. Circostanza confermata dalle navi mercantili e dal ponte di comando della Ocean Viking, che aveva ascoltato il messaggio radio dall’aereo europeo Osprey: “Mayday Mayday per una barca in distress”. Poi l’indicazione delle coordinate per raggiungere i naufraghi.

Questa volta, però, dal quartier generale di Varsavia, Frontex aggiunge un dettaglio che da solo spiega come gli avvisi precedenti fossero stati ritenuti insufficienti: “Tutti gli Mrcc nell’area (le centrali di coordinamento di soccorso, ndr) sono stati informati, incluso quello di Tripoli quale Centro di coordinamento responsabile”, per le operazioni nel mare di ricerca e soccorso libico. Otto ore prima, infatti, sempre Frontex pur essendo a conoscenza della situazione di grave pericolo nella Sar libica, in un’altra email circoscriveva il coinvolgimento dell’allerta alle sole autorità di Roma e La Valletta. “Abbiamo immediatamente ritrasmesso il messaggio di allarme (ricevuto attraverso Alarm Phone, ndr) alle autorità maltesi e italiane”, si legge in un messaggio di posta elettronica inviato alle 08,49 del mattino. Alle 07.52, infatti, Alarm Phone aveva avvertito Frontex dei rischi in mare, precisando la posizione gps ricavata dalla chiamata satellitare dei migranti, che collocava il barcone in area libica.

Il portavoce della Marina libica, il contrammiraglio Massoud Abdelsamad, ha negato che la guardia costiera Tripoli non abbia fatto tutto il possibile per salvare le vite dei migranti.

Nelle ultime settimane Abdelsamad ha dovuto far fronte a molte rivelazioni. Nei giorni scorsi rispondendo alle domande di Rainews che aveva ottenuto nuove prove sull’uso di armi da fuoco durante le operazioni di intercettazione dei migranti, aveva spiegato che talvolta dalla motovedette “vengono esplosi dei colpi di arma da fuoco in aria per calmare i migranti durante le operazioni di soccorso”.

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